sabato 14 agosto 2010

LA DIGNITA' AL ROSSO DEI SEMAFORI. Altre storie di ordinaria precarietà






Sono arrivato in ritardo. Poco dopo l’una .
All’ex Socrate Occupato c’è il pranzo sociale .
L’ex liceo nei pressi di via Fanelli a Bari.
Corridoi con scritte nuove e vecchie , una
marea di porte e i ragazzi africani che quando
arrivo smettono di parlare e mi salutano .
Due cose indispensabili per l ‘accoglienza :
un bellissimo “ciao” ed un gran sorriso . Per
un momento mi è sembrato che volessero
insegnarmi il senso dell’accoglienza, pur
sapendo che io sono andato a trovarli per fare
anche mia, convintamente , la loro causa . Ci
rifletto un po’, silenziosamente, e mi rendo
conto di quanto abbiano ragione . Ricambio
saluto e sorriso mentre ci stringiamo la mano,
come si fa tra vecchi compagni, e mi inoltro,
guidato dai ragazzi, nei meandri della scuola
occupata .
E’ domenica e nel corridoio che abbiamo
imboccato si sente un odore intenso . La
sensazione è quella che si ha nei mezzogiorni
da riposo domenicale, tipicamente italiani,
quando si è reduci da un sabato pseudomondano
e nelle nostre case pugliesi si sentono gli aromi
dell’abbondante pranzo in preparazione in
attesa di qualche ospite . Entriamo finalmente
nell’aula dove i rifugiati hanno preparato il
banchetto e troviamo un’atmosfera festosa e
piena di sorrisi . Tutti mi salutano e mi invitano
a mangiare qualcosa. Una signora mi consiglia
di assaggiare lo Zighinì . Ecco spiegato quel
buon odore che si sente sin dall’ingresso.
Lo Zighinì è un piatto tipico eritreo , uno
spezzatino di carne di manzo cotto in un sugo
molto speziato e servito su una specie di pane
spugnoso. Apprezzo moltissimo . Istifanos
, uno degli occupanti, se ne accorge e mi si
avvicina . Vuole sapere se la pietanza è di mio
gradimento. Affermativo . Buonissima. Lui mi
osserva. Guarda la mia macchina fotografica e
mi chiede se sono un fotografo, un giornalista.
Mi accorgo che al mio “no” rimane un po’
deluso . Soliti convenevoli , stiamo lì a parlare,
a mangiare lo zighinì . Comunichiamo in
inglese. I ragazzi lo parlano benissimo. Chiedo
ad Istifanos dove abbia imparato a parlare
cosi bene l’inglese e quando apprendo che lo
ha imparato a scuola, come tutti in Eritrea,
Etiopia e Sudan , penso all’inutilità delle mie
ore di inglese passate alla scuola superiore del
mio paese “civile”.
Istifanos viene dall’Eritrea con tanta voglia di
raccontarsi. Mi fa capire che è andato via da
lì perché si è rifiutato di diventare militare e
fare la guerra. Ha dovuto lasciare l’Eritrea ed
affrontare un viaggio di due mesi, sopportando
fame , grosse umiliazioni e di vedere compagni
di viaggio morire durante il cammino.
Due mesi di viaggio per arrivare qui ? Sono
sbalordito . Mi sembra troppo. Lui mi spiega
che i migranti , seppur coscienti di affrontare
l’inferno , corrono ogni rischio, pur di rivalersi
nei confronti di una situazione che,nelle loro
terre, li umilia senza remore .
Istifanos non è drammatico nei toni. Ha un
viso sereno e persino allegro. E’ proprio la sua
affabilità a trasmettermi le immagini dolorose
del suo racconto, a farmele rivivere, a renderle
mie. Intanto, mentre racconta, tira fuori il suo
permesso di soggiorno con la carta d’identità.
Ci tiene a mostrarmi i documenti perché quelle
carte sono il risultato di un vissuto importante.
Comprendo la forza di quel gesto e decido di
immortalare quel momento in una fotografia.
Lui pare esserne contento e sfoggia un grande
sorriso quando gli mostro sul display la sua
immagine. Mi porta a trovare altri compagni
che poco lontano da noi mangiano pasta al
forno seduti per terra intorno ad un fornelletto
a gas. Stessa accoglienza cordiale. Mi offrono
del vino. Guardo l’etichetta . E’ vino italiano.
Li guardo sorridere perché gradiscono il vino
pugliese. Si presentano e scopro che non tutti
sono eritrei. C’è un ragazzo giovane con i
capelli lunghi e crespi che viene dall’Etiopia ed
anche un signore un po’ più grande che invece
è del Sudan. E’ un momento di silenzio e di
sguardi ma di forte interazione , poi parliamo
dell’ex Socrate. Voglio sapere dell’occupazione
e mi spiegano che dopo aver sopportato
repressione, umiliazione, viaggi estenuanti, per
loro non era più accettabile subire l’onta del
freddo notturno ed invernale delle panchine
assurde di Piazza Umberto. Hanno occupato
perché i somali del ferrhotel avevano ragione.
Perché rispondere a questa democrazia che
risolve i “problemi” usando sistematicamente
l’oppressione invece di capire realmente le
situazioni è stato, per loro, un dovere morale
e civile. Mi spiegano che in Svezia, ad
esempio, la cosiddetta “seconda accoglienza”
riservata ai rifugiati politici, darebbe loro la
possibilità di essere autonomi e di vivere più
dignitosamente. Uno di loro, il più giovane,
ribadisce che non è più possibile subire in
modo così passivo il potere decisionale e che
è necessario per chiunque rivendicare in modo
sostanziale i propri diritti. Ci guarda tutti e
sottolinea che non è una questione che riguarda
solo i rifugiati eritrei, sudanesi, etiopi o somali,
ma è un principio che vale per chiunque sia
costretto a stare alle corde del ring a parare
pugni tutti i giorni . Nella mia mente traduco
il suo pensiero nel concetto di “ lotta di classe
“. Lotta di classe? Ma non era un ‘idea antica
e superata? Questo ventenne etiope, dai capelli
simpatici, sta smontando decenni di rincorsa
alla modernizzazione delle nostre belle società
occidentali parlando dall’alto dell’esperienza
di un ragazzetto non rassegnato. E’ un
momento importante e cerco di mostrargli,
semplicemente annuendo, quanto io condivida
il suo pensiero. Lui capisce e mi chiede quale
sia il mio lavoro . Faccio l’operaio in fabbrica.
Mentre gli spiego in cosa consiste il mio lavoro,
penso inevitabilmente ai miei compagni
colleghi in fabbrica, alle panchine scomode
delle sale pausa affollate da personaggi
sporchi di polvere di ghisa e da discorsi di
recriminazione per un rigore non concesso.
Penso al futuro di Istifanos e di questo
ventenne cosciente, alla dignità dei loro
compagni e di quelli condannati ad esser
precari, tutto relegato al rosso di un semaforo
ed al monossido di carbonio respirato per
chiedere pochi spiccioli ad autisti magnanimi
usciti da un qualsiasi centro commerciale in cui
hanno comprato l’i-phone, a rate, per sentirsi
liberi come i concorrenti di “Uomini e Donne”
coi complimenti per la trasmissione e le serate
passate a giocare alla Playstation3 . Sempre
meglio della guerra e delle pulizie etniche.
“Noi siamo persone” .
Detto da Istifanos, in italiano, rimane nelle mie
orecchie come il rumore costante del gruppo
elettrogeno che ci permette di accendere la
lampadina. Io e i ragazzi ci salutiamo dopo
qualche partitella a calcio. Strette di mano e
sorrisi di qualcuno che crede ancora che la
legalità, quella sostanziale, non sia figlia della
sola burocrazia. La nostra legalità è figlia della
dignità di tutti.

Felisiano Bruni

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