lunedì 16 agosto 2010

L'IPRITE FANTASMA di Ciccio Mancini

…IL MARE RESTITUISCE QUELLO CHE GLI SI DÀ 

E, SE GLI SI DÀ VELENO E MORTE, PRIMA O POI

RESTITUISCE VELENO E MORTE…
 
Il 13 novembre 2009, presso la Fabbrica di San Domenico di Molfetta, si è tenuto un incontro allo scopo di informare sulle attività svolte in relazione all’accordo di programma per la caratterizzazione e la bonifica da ordigni bellici ai fini del risanamento ambientale del Basso Adriatico e fornirne i primi risultati. Vi hanno partecipato l’assessore ed un rappresentante del settore ecologia della Regione Puglia, l’agenzia regionale per la protezione dell’ambiente ARPA, il sindaco di Molfetta, il Ministero dell’Ambiente, l’istituto di ricerca ISPRA e il Nucleo SDAI per il recupero degli ordigni inesplosi e la bonifica dei fondali. Si è rammentato che il Basso Adriatico è stato utilizzato fino agli anni ’70 per lo smaltimento di munizionamento militare obsoleto e che vi sono stati affondati residuati bellici provenienti dalla bonifica dei porti pugliesi e da depositi e stabilimenti di produzione, assemblaggio e sconfezionamento di ordigni. È stato anche sottolineato come gli ordigni di cui trattasi siano dispersi in un’area piuttosto ampia, che si estende dai fondali delle aree portuali fino a tratti di mare a diversa distanza dalla riva, anche per la pratica degli operatori di riaffondare in ambito portuale i residui bellici accidentalmente salpati. Si è precisato che, nell’ambito del citato accordo di programma sono state effettuate le operazioni di bonifica sistematica del porto di Molfetta, individuato come settore prioritario, essendosi ritenuta urgente l’esigenza della continuazione dei lavori di realizzazione del nuovo porto commerciale. Ulteriori avanzamenti nello stato di progresso dell’accordo di programma avrebbero riguardato le attività di caratterizzazione nell’area di Torre Gavetone. In tale contesto, è stata contraddittoriamente affermata e negata la presenza di aggressivi chimici e, in particolare, di contenitori di iprite nel tratto di mare antistante il porto di Molfetta.



 

La cosa è apparsa assai sorprendente a chi scrive, se non altro perché figlio di
un marittimo contaminato alle gambe ed anche, sia pur superficialmente, agli
occhi, durante una battuta di pesca in quella zona di mare, dall’iprite o altro
gas vescicatorio, di cui, dopo tanti anni, reca ancora le cicatrici.
Del resto, i cittadini di Molfetta sono perfettamente a conoscenza del numero
elevato di pescatori, che nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale
sono incorsi in analoghe disavventure, con conseguenze più o meno gravi.
Oltretutto, i dati relativi a questi incidenti sono in buona parte perfettamente
noti al livello più ufficiale, essendo stati oggetto di registrazione da parte
delle strutture sanitarie pubbliche locali.
Il fenomeno ha avuto una recrudescenza nel corso del 2008, allorché
diversi pescatori hanno dovuto far ricorso a cure mediche per aver subito
contaminazioni durante il loro lavoro, pur non essendo venuti a contatto
con alcun ordigno bellico o contenitore di gas. In altri termini, questi
lavoratori hanno denunciato di essere stati colpiti dal puro e semplice
contatto con acqua di mare e, forse, anche con aria contaminate. Circa le
cause del fenomeno e del suo determinarsi proprio e solo in quel periodo,
una possibilità è che proprio le operazioni di bonifica degli ordigni bellici
allora in corso abbiano fatto risalire, accidentalmente o meno, le sostanze
chimiche sparse nei fondali o ancora contenute nei fusti. Non dovrebbe
peraltro costituire impresa di particolare difficoltà l’individuazione dei
luoghi del misfatto e la verifica dei sedimenti sottomarini, date le profondità
certamente non proibitive. È da sottolineare, peraltro, che, a distanza di
circa un anno, non hanno avuto ancora alcun riscontro le denunce da loro
presentate, né i pescatori sono stati messi a conoscenza dei risultati delle
analisi effettuate presso presidi sanitari pubblici.
Il minimo che si possa dire è che le pubbliche autorità non abbiano
nell’occasione tenuto un comportamento improntato alla trasparenza
dell’informazione, né tale da far escludere una volontà di insabbiamento.
D’altra parte, non vale la pena di insistere sulle asserzioni negazioniste
pronunciate in quella sede, che, dato l’andazzo invalso a tutti i livelli, sarà
sempre possibile attribuire a fraintendimenti o distorsioni o, al più, ad
una non esatta corrispondenza delle parole usate con ciò che si intendeva
effettivamente dire. Verosimilmente il comportamento tenuto potrebbe
spiegarsi con la necessità di non provocare panico nella popolazione e di
non danneggiare le attività balneari e turistiche. E tuttavia è innegabile che
il pubblico sia stato trattato da alcuni dei relatori alla stregua di bambini, cui
sono i grandi a dover decidere quanto è più o meno opportuno comunicare.
In ogni caso, la presenza di iprite al largo delle coste di Molfetta è cosa
notoria e dimostrata su solide basi documentali e testimoniali, oltre che
oggetto di ricerche storiche effettuate da studiosi degni della massima fede,
la cui validità, peraltro, non risulta essere mai stata negata o contestata.
In epoca recente è stato proprio l’Icram - Istituto centrale per la ricerca
scientifica e tecnologica applicata al mare, attualmente Ispra - a rilevare la
presenza di iprite e altri aggressivi chimici nei fondali marini antistanti il
porto di Molfetta, che, non a caso sono stati inseriti tra le sei emergenze
ambientali per le quali la NATO è attualmente impegnata.
 L’iprite è un potente aggressivo chimico, tossico e vescicatorio, composto
di solfuro di etile diclorurato, usato nella prima guerra mondiale, preparato
per azione dell’etilene sul cloruro di zolfo; il suo odore è simile a quello della
mostarda; se è pura, è oleosa, incolore e poco solubile nell’acqua. Agisce
come irritante sulla pelle e sulle mucose, dove produce eruzioni, vescicazioni
dolorose e rigonfiamenti degli organi genitali. È persistente sul terreno;
infetta tutto ciò che viene a contatto con essa.
Fu preparata nel 1860 da Guthrie e da Niemann ed impiegata dai tedeschi
nel 1917 sul fronte della città belga di Ypres, donde il suo nome. Le è stato
attribuito, non certo a caso, il significativo appellativo di rugiada della
morte. Il 17 giugno 1925 la Convenzione di Ginevra vietò l’uso in guerra
dell’iprite, come delle altre armi chimiche, anche se il loro impiego continuò
durante il periodo interbellico. Non si ebbero invece utilizzi degli aggressivi
chimici durante la seconda guerra mondiale, né in battaglia, né in attacchi
terroristici alle popolazioni (a parte l’impiego del gas Cyclon B nei campi di
sterminio). Tuttavia, esse, in particolare l’iprite, furono oggetto di una sorta
di guerra segreta, nel senso che comunque gli aggressivi chimici viaggiarono
al seguito degli eserciti, a fini di deterrenza o di eventuale ritorsione in caso
di impiego di tali armi da parte del nemico.
Alla fine del secondo conflitto mondiale i fusti di iprite non finirono
per caso nel Mare Adriatico, ma perché affondativi dalle forze armate
statunitensi, sia direttamente, sia, su loro incarico, da parte di operatori
privati, perlopiù del settore della pesca. Si è fatto carico a questi operatori
privati di avere trasgredito in molti casi alla disposizione di affondare i fusti a
grande distanza dalle coste e ad alta profondità. Allo stesso modo, come nella
recente occasione richiamata in esordio, non si è mancato di stigmatizzare
il comportamento di quegli operatori della pesca, che, in epoche successive,
hanno ritenuto di sbarazzarsi dei contenitori accidentalmente salpati,
rigettandoli a mare in aree prossime al porto di Molfetta.
Sembra, ad ogni effetto, un classico caso degno del monito evangelico della
pagliuzza e della trave.
Il crimine originale, gravissimo e imperdonabile contro l’ambiente e
l’umanità, è consistito, in primo luogo nella decisione di gettare in mare i
contenitori di iprite e di altri aggressivi chimici, come il fosgene.
È il caso di rammentare che l’Adriatico è stato usato come pattumiera,
soprattutto dalle forze armate della NATO, in epoca assai più recente,
in occasione delle guerre balcaniche, allorché nei suoi fondali sono stati
disseminati ordigni di ogni genere, comprese bombe radioattive all’uranio
impoverito. Il mare, com’è noto, prima o poi restituisce quello che gli si dà
e, se gli si dà veleno e morte, prima o poi restituisce veleno e morte. Il fatto,
poi, che si sia utilizzato allo scopo un mare assai pescoso e poco profondo
come l’Adriatico è una aggravante del delitto commesso, così come non
un’attenuante ma un’ulteriore aggravante è nella scelta ed omesso controllo
dei privati incaricati della operazione di affondamento degli aggressivi
chimici.
Le indagini epidemiologiche hanno evidenziato negli ultimi decenni il
drastico peggioramento delle condizioni di salute e mortalità della città di
Molfetta e, nello stesso lasso di tempo, il suo territorio si è caratterizzato
per un acceleramento del processo di antropizzazione ed industrializzazione.
È quindi certamente legittimo e realistico porre in relazione causale i due
fenomeni.
Questo non significa che le condizioni del mare e dei suoi fondali vadano
escluse come concause rilevanti della drammatica discesa di Molfetta nelle
classifiche della salute, se non altro perché parte notevole degli agenti
inquinanti finiscono in mare e ne vengono restituiti nelle forme più varie e
magari impreviste. I veleni chimici e radioattivi liberati, anche per il semplice
effetto dell’azione di logoramento dell’acqua di mare sui fusti e gli ordigni
che li contengono, trasformano in zone morte i tratti di mare ed i fondali
in cui si spargono. In tal modo essi contribuiscono in misura comunque
significativa alla scomparsa o diradamento di specie animali e vegetali ed
alla sostanziale interruzione delle catene alimentari, che sono la base della
vita non solo marina. A tutto ciò, ovviamente, va aggiunto il sempre presente
pericolo del contatto accidentale delle persone con queste fonti di veleno e
di morte.
Sembrerebbe superfluo, data la situazione, raccomandare di utilizzare ogni
risorsa disponibile e reperibile prima di tutto per liberare il mare dalle
minacce chimiche, radioattive e, in genere, belliche, avendo di mira prima
di tutto la salute e l’integrità delle persone, anziché e prima degli affari di
qualcuno. Del resto, trattandosi di profitti comunque finanziati tramite la
spesa di denaro pubblico, non si vede perché non debbano essere conseguiti
innanzitutto per l’esecuzione di attività volte al miglioramento dell’ambiente
e dei livelli di salute. Ciò comporterebbe, ovviamente, che si eviti o, almeno,
si rimandi a tempi migliori l’esecuzione di opere certamente non urgenti,
se non velleitarie e inutilmente dispendiose, quale, alla luce anche del
semplice buonsenso, andrebbe considerata la realizzazione del nuovo porto
commerciale.




(ph. Domenico Loiacono-Rumore Collettivo)



articolo tratto dalla rivista di LineaCinque "Terre Libere"

da rai news24

video documentario della NATO che parla di Molfetta

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